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LA CINA OGGI TRA CRISI E RICETTE PER USCIRNE

L'economia cinese, che sta vivendo un periodo piuttosto travagliato, quest’anno potrebbe crescere del 7%, appena oltre le attese (+6,9%) avendo registrato una crescita su base trimestrale dell’1,7%, in lieve crescita rispetto l’1,4% dei primi tre mesi dell'anno. Ma gli analisti sospettano che il dato dell'ufficio nazionale di Statistica non sia corretto e i cinesi nascondano la verità sul reale stato di salute della loro economia. A confermare i sospetti, all'inizio di agosto l'indice manifatturiero cinese (il China Manufacturing Purchasing Managers, pubblicato dalla rivista Caixin) è sceso a 47,1 ai minimi da due anni, un dato che conferma una contrazione dell'economia. Secondo l'agenzia Moody's il rallentamento dell'economia cinese proseguirà con un Pil del 6,8% per quest'anno, un 6,5% per il 2016 e un 6% atteso per fine decennio.
Del resto, una stessa crescita del PIL limitata al 7% non può bastare ad una Nazione il cui tasso di crescita demografica imporrebbe un minimo del 9% per il mantenimento dell’equilibrio occupazionale. Che, tra parentesi, viene sempre dichiarato stabile dalle Autorità (suscitando molti dubbi tra gli osservatori).
I dati economici ritraggono invece un quadro assai più cupo, con una Cina impegnata a lottare contro la “tempesta perfetta”, paralizzata da una somma di crisi dopo trent’anni di boom leggendario: crollo dell’immobiliare, con il 23% di invenduto, inedita contrazione dei consumi interni e dell’export, indebitamento delle imprese private esploso dal 98% al 155%, “banche ombra” più potenti dei colossi di Stato e febbre finanziaria alimentata da crediti che hanno superato il 70% degli investimenti.
I prezzi alla produzione, in Cina, sono al trentaduesimo mese di calo e tra settembre e ottobre di quest’anno sono scesi di 2,2 punti percentuali. Nello stesso periodo, quelli al consumo sono aumentati di un misero 0,5%, con un tasso annuo medio che attualmente è pari all’1,6%, il punto più basso da settembre 2010. Tanto per dare un metro di paragone, tra il 1986 e il 2014, i prezzi sono aumentati a un tasso del 5,72%.
Il motivo è facilmente intuibile: la Cina è malata di sovrapproduzione, con un’offerta che supera di gran lunga la domanda. Colpa delle pressioni sui governanti locali affinché nella loro provincia il Pil cresca più che altrove. Pressioni che loro trasferiscono ai loro sottoposti e alle imprese. In realtà, è da qualche anno che il Governo centrale non rende conto più solamente della crescita del prodotto interno lordo, ma prima che il funzionariato periferico si abitui alle nuove regole, dovrà passare parecchia acqua sotto i ponti.
Della deflazione cinese potremmo anche disinteressarci se non fosse che la cosa ci riguarda da molto vicino. Già nel 2002, Huriko Huroda, allora Ministro delle Finanze del Giappone e ora governatore della sua Banca Centrale, avvertiva che far entrare la Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio sarebbe stato un suicidio, in quanto avrebbe aggiunto, con i suoi prezzi bassi, una «grande forza deflattiva» nell’economia globale. Un paper del 2006 della Federal Reserve americana gli dava sostanzialmente ragione, affermando tuttavia che l’economia cinese era ancora troppo piccola per avere un impatto sul resto del pianeta. Ora, l’economia cinese è la seconda del pianeta e la prospettiva è notevolmente diversa.
La deflazione della Cina è ora un problema perché la sua economia è fortemente orientata all’export. Se i prezzi alla produzione scendono, i mercati occidentali, come il nostro rischiano di essere invasi da merce sempre più a basso costo. Se, allo stesso modo, scendono i prezzi al consumo, i prodotti che esportiamo in Cina si troveranno a dover fronteggiare le aspettative di un mercato persuaso che i prezzi si abbasseranno, prima o poi. C’è di più: se i prezzi alla produzione si abbassano, facendo crescere i costi di finanziamento reali alle imprese cinesi – in deflazione è sempre il debitore che ci perde, perchè il denaro costa di più – aumenterà la possibilità che gli imprenditori si rivolgano al sistema bancario ombra della Repubblica Popolare. Il rischio è che il fragile sistema del credito ufficiale possa saltare, se i prezzi continueranno a scendere.
Inutile spiegare che questo pachiderma statale-mercantilista ha riversato l'euforia dal settore finanziario a quello dell'economia reale: aereoporti deserti, centrali commerciali vuoti, ponti verso il nulla, città fantasma, ecc. Il settore delle costruzioni è letteralmente andato fuori controllo facendo spuntare in ogni dove aziende specializzate nella realizzazione di strutture in cemento. In altre parole, la Cina è diventato un serbatoio immenso per diverse commodities come rame, ferro, alluminio, acciaio, cemento, ecc. Tale situazione non ha richiesto molto tempo prima che la capacità di saturazione interna venisse completamente occupata, richiedendo l'esportazione su vasta scala di queste materie prime. Se fino ad ora abbiamo avuto disinflazione dei prezzi, è stato soprattutto grazie agli inventari gonfi che la Cina ha riversato nel mondo. E a quanto pare non vuole smettere di riversare visto che dopo la creazione dell'AIIB, vuole attrarre, attraverso soldi quasi gratis, l'arrivo sul suolo cinese di soggetti esteri che investano nella terra del capitalismo rosso.

Ciò è equivalso ad una sovvenzione a tutti quei paesi che hanno importato materiali dalla Cina. Se oggi diverse aziende occidentali sono potute sopravvivere, è stato anche grazie alla mole d'investimenti improduttivi spuntati sul suolo cinese. Ha anche messo fuori mercato quelle aziende occidentali che per anni sono riuscite a sopravvivere grazie agli interventi statali che, attraverso sussidi alle imprese, hanno permesso loro di restare sul mercato e deviare risorse reali. Pensate all'industria dell'acciaio statunitense, ad esempio. Ma come si è affermato poco sopra, questa capacità in eccesso è stata praticamente svenduta sul mercato mondiale avviando le aziende cinesi nel ramo delle costruzioni ad affrontare la triste realtà delle loro scelte: quelli in cui si erano impegnati erano investimenti improduttivi, e il mercato lavora sempre affinché vengano liquidati.
Dobbiamo cominciare a preoccuparci, quindi? Un po’. Di sicuro, stanno cominciando a preoccuparsi i governatori delle banche centrali: da Huriko Huroda, che si trova di fronte all’avveramento delle sue previsioni pessimiste di un decennio fa, sino a Janet Yellen della Federal Reserve e, ovviamente, Mario Draghi della Bce. La ricetta, per ognuno di loro, è la medesima: stampare moneta. Per Huroda significa continuare a farlo, per la Yellen significa non smettere, per Draghi cominciare.
Quel che è altrettanto possibile è l'effetto deflattivo che l’ultima manovra avrà sul resto del mondo, Italia compresa, che si vedrà invaso più di quanto non lo sia già oggi di beni a basso costo provenienti dalla Cina, avverando la profezia dell’effetto deflattivo sull’economia globale. Ironia della sorte, mentre la Banca Centrale Europea sta producendo il massimo sforzo possibile con il Quantitative Easing, per far crescere l’inflazione.
E la Cina? Secondo Bloomberg, per il presidente della repubblica popolare Xi JInping questa situazione potrebbe rivelarsi vantaggiosa, alla fine dei conti: «Lo shock dei prezzi che cadono – si osserva – potrebbe dare a Xi la forza per spostare i vettori di crescita dalle esportazioni e dagli eccessivi investimenti ai consumi e alla domanda interna». In altre parole, facendo diventare la Cina una economia adulta, facendo crescere i salari e investendo nella crescita del potere d'acquisto dei suoi abitanti. Ovviamente, se riuscirà a evitare che si scateni il panico.
Due dati usciti in questi giorni confermano che l’economia cinese cresce a ritmi sempre più lenti. A marzo le esportazioni del paese asiatico sono diminuite del 15% rispetto all’anno prima, mentre le importazioni sono calate del 12,7%. Ricordiamo inoltre la bassa crescita del pil nazionale dei primi tre mesi del 2015 rispetto allo stesso periodo di un anno fa, il risultato peggiore dal 2009.
Un altro dato da ricordare è impressionante: nei primi sette mesi del 2015 rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente la Cina nell'export mondiale ha perso il 7,3%. In altri termini ha dovuto rinunciare a ben 2.23 trilioni di dollari. Un mare di denaro che ha contribuito a mandare in tilt interi settori produttivi legati a doppio filo proprio alla domanda esterna. L'indice Pmi di agosto, in realtà, è la prova che il made in China è in grave sofferenza. I settori tradizionalmente in overcapacity ai quali dovrebbe dare una mano la strategia proiettata a esplorare nuove piazze e alleanze, nota come New Silk road (che in questa estate ha trovato le sue guidelines ufficiali) risultano in assoluto i più colpiti dalla crisi.
Per capire cosa significano questi dati bisogna considerare che negli ultimi 35 anni il paese asiatico ha conosciuto uno sviluppo straordinario: come spiega l’Independent, puntando sulle produzioni destinate all’esportazione più che sui consumi interni, la Cina è riuscita a crescere a un ritmo annuale del 9,7%, portando circa 600 milioni di suoi cittadini fuori dalla povertà.
Quando è scoppiata la crisi globale, nel 2008, è diminuita la domanda di beni dal resto del mondo, in particolare dagli Stati Uniti e dall’Europa, facendo calare le esportazioni e la produzione. A quel punto, per mantenere in piedi il sistema industriale e continuare ad assicurare gli elevati ritmi di crescita del pil, Pechino ha promosso, come detto sopra, un numero crescente di investimenti finanziati dalle banche di stato e dai governi locali. Citiamo per inciso l’enorme sviluppo immobiliare (nell’ultimo triennio la Cina ha consumato il 60% del cemento mondiale) e quello dei siti produttivi.
Ma questa soluzione ha creato gravi problemi: molti progetti non hanno generato le entrate necessarie per ripagare i finanziamenti, accrescendo il rischio di un crac finanziario del settore bancario e delle amministrazioni pubbliche. Alla fine le autorità di Pechino hanno capito che era arrivato il momento di abbandonare il modello di crescita basato sulle esportazioni e sugli investimenti per passare a un’economia in cui contano molto di più i consumi interni. Per ottenere questo obiettivo il governo ha promosso un’ampia gamma di riforme che toccheranno tutti gli aspetti vitali del sistema economico e del welfare.
In attesa che le riforme siano completate, si vedono già i primi segnali di cambiamento, tali da fare affermare che si vede di “fine di un’era per la Cina”. I dati sulle esportazioni e sul pil ci dicono che nel paese i consumi cominciano ad avere più peso degli investimenti, i servizi più della produzione manifatturiera, la domanda interna più delle esportazioni. Il pil cinese rallenta a causa della crisi globale, ma anche perché stanno cambiando i fattori che lo determinano.
Nel 2014 i consumi hanno garantito più del 50 per cento del pil, mentre nel 2009 erano al 35 per cento. Alla crescita del 7,4 per cento registrata dal pil l’anno scorso, i consumi hanno contribuito con il 3,8 per cento e gli investimenti con il 3,6 per cento. In prospettiva, puntando di più sui consumi e sui servizi, la Cina aspirerebbe ad adottare un modello economico più vicino a quello dell’Europa e degli Stati Uniti.
L'ultimo piano quinquennale prevede una spesa di 1,7 trilioni di dollari in cinque nuovi settori, che comprendono le energie rinnovabili, le tecnologie ecologicamente compatibili e una nuova generazione IT. Un orientamento che risponde certo alla necessità di contrastare gli altissimi livelli di inquinamento delle città cinesi, ma nasce anche da una visione nuova, che non si ferma alle energie rinnovabili ma prevede un riorientamento totale dell'economia in senso ecologico, per i sistemi produttivi e per lo stile di vita.
Il deprezzamento di metà Agosto della valuta cinese ha sollevato molti interrogativi e timori. La svalutazione ha avuto effetti sui titoli, sulle materie prime e sulle valute mondiali ed ha ridotto il valore della yuan ai minimi nel giro di vent’anni. Nei due giorni successivi sono seguite altre due svalutazioni, dell’1,06% e dell’1,1%, affinché lo yuan riflettesse le variazioni del mercato, secondo la banca centrale cinese.
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Forte l’impatto anche sui mercati azionari mediorientali, soprattutto nei Paesi del Consiglio di cooperazione del golfo Persico. Molti hanno chiuso la seconda settimana di agosto in rosso. L’indice di Dubai ha perso il 3,35% e si stima che il valore complessivo delle azioni degli Emirati Arabi Uniti sia diminuito di circa 18 miliardi di dirham, oltre 4 miliardi di euro.
Le guerre monetarie non sono niente di nuovo per i mercati, la guerra c‘è da quando c‘è la crisi finanziaria: i Paesi si servono delle proprie valute come strumenti per stimolare le proprie economie. Comunque, si può affermare che la guerra può intensificarsi. Ma queste guerre arrecano sempre nuove opportunità – non sappiamo se positive o negative – per il commercio e per gli investimenti. La decisione della banca centrale cinese è vista come un’azione riformista e per noi è una decisione normale.

La svalutazione della moneta cinese ha causato all’inizio un aumento improvviso del dollaro, prima che questo si indebolisse alla fine della settimana, cosa che ha fatto diminuire ulteriormente i prezzi del petrolio. Quindi i timori dei mercati mediorientali sulla riduzione dei prezzi del petrolio sono riemersi in superficie, mentre questi prezzi incidono sul bilancio del consiglio di cooperazione del Golfo.
L’Arabia Saudita è dovuta tornare al mercato obbligazionario per poter mantenere l’attuale livello di spesa. Il mercato lo ha interpretato come un segno negativo, che ha provocato vendite improvvise delle azioni regionali. Questo nonostante il fatto che il debito dell’Arabia Saudita sia soltanto dell’1,6%, il più basso al mondo.
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Il crollo delle quotazioni di Agosto, che hanno polverizzato dieci volte il PIL della Grecia in pochi giorni, hanno portato la Banca Centrale Cinese ad adottare alcuni provvedimenti cautelativi: la sospensione della quotazione di circa la metà dei titoi quotati sulle Borse nazionali, l’obbligo delle Aziende Statali ad investire in azioni, quello ai Fondi di rivolgere agli stessi titoli i propri investimenti, la diminuzione del Tasso di Sconto ed il divieto di procedere a nuove Ipo, con l’obiettivo di preservare la liquidità in un momento di volatilità del mercato. Alcune misure ricalcano quelle Cina era già ricorsa nel 2012, in coincidenza della transizione della leadership del Partito comunista. Come allora, dinanzi all’incertezza, si vorrebbe impedire agli investitori di vendere azioni detenute in portafogli per puntare su quelle di nuova quotazione. La misura riguarda però una quantità di capitali ben maggiore di tre anni fa, visto che gli analisti hanno stimato a 645 miliardi di dollari i capitali che le Ipo già pianificate potrebbero attrarre.

Non è chiaro quanto tempo durerà il divieto, azioni simili in passato sono durate da 3 a 14 mesi. Il blocco delle Ipo arriva dopo un’altra misura avviata dai principali broker cinesi, tra cui Citic Securities, che avevano costituito un fondo da circa 19,3 miliardi di dollari (l’impegno è pari il 15% degli asset netti di ogni società) per investire nel mercato azionario e acquistare Etf sulle blue-chip. Una misura che fa seguito a precedenti tentativi falliti di frenare la fuga degli investitori.

Sono stati inoltre ridotti i requisiti di capitale per alcune banche e si sono allentate le restrizione per operare in «leverage», ovvero indebitandosi, e ridotte le commissioni di trading.

I 21 broker del fondo hanno suggerito ai risparmiatori di non ridurre le posizioni azionarie sino a quando l’indice Shanghai Composite resterà sotto i 4.500 punti (venerdì ha chiuso a 3.686 punti). I 19,3 miliardi potrebbero però bastare solo per pochi giorni, costringendo a un intervento diretto del gigantesco fondo sovrano cinese. Il più lungo rally borsistico della storia della Cina - con Shanghai e Shenzhen che hanno guadagnato in un anno il 150% e il 190% - sta dunque trasformandosi in uno tsunami capace di travolgere gli oltre 90 milioni di cinesi che si sono affidati alla speculazione borsistica (tanti sono i conti telematici di trading aperti, più del numero degli abitanti del Giappone), anche grazie alle politiche di favore dell’ultimo grande regime comunista del Pianeta.
Infatti, nell’ultimo anno, le autorità hanno benevolmente spinto la popolazione a gettarsi nell’investimento azionario, senza verificare ed apprestare condizioni di liquidità minimali, né strumenti che consentissero di prevenire e calmierare spontaneamente i rialzi eccessivi, ulteriormente amplificati dall’utilizzo della leva finanziaria. Ad esempio, niente possibilità di vendite direzionali (cioè non di copertura) allo scoperto durante i rialzi, tramite futures su indice; niente opzioni su singoli titoli. Poi, acquisti su società quotate che hanno pochissimo flottante, come tipicamente accade per le grandi società pubbliche, dove lo stato ha messo sul mercato solo briciole. Da questa colpevole trascuratezza e sciatteria regolatoria è originata la bolla azionaria cinese, alimentata da “suggerimenti” dei media di regime a comprare con fiducia, sottintendendo l’esistenza di una sorta di opzione put di guadagno sicuro.
Le mosse delle autorità degli ultimi giorni sono effettivamente apparse da subito sconcertanti, con liquidità agevolata di Stato («ampia liquidità» ) resa disponibile ai broker che hanno prestato ai risparmiatori, la creazione di un “fondo di stabilizzazione” per acquistare azioni e mantenerle in portafoglio (quindi ridurre ulteriormente il flottante, idea non particolarmente sensata in questo momento), modifica delle garanzie sulla marginazione. Di fatto, ora è la stessa banca centrale cinese che sta utilizzando il proprio bilancio per sostenere le quotazioni, in quello che appare una sorta di easing quantitativo fuori controllo di logica e senso comune ma pressoché obbligato, per estinguere un incendio che rischia di sfuggire di mano.
Il governo evidentemente si è mosso a salvaguardia dei listini per due ordini di ragioni: evitare ripercussioni a livello sociale per via dello spettro di una crisi del credito e modernizzare il mercato in modo da rendere quello delle cosiddette a-share meno dipendente dall'azionariato popolare e più aperto a fondi e investitori istituzionali. Pechino «è determinata a evitare la caduta», scrivono gli analisti di Hsbc.
Con le sue iniziative però, negli ultimi anni Pechino ha sgonfiato le sue bolle creandone di nuove. Gli investimenti sono passati dall'oro all'immobiliare, poi ai terreni edificabili e infine ecco la bolla finanziaria. Come in precedenza, secondo l'autorevole rivista finanziaria Caixin, il peccato originale è stato proprio quello di «aver ignorato le regole del mercato» e di non aver riconosciuto in tempo che i rialzi dell'ultimo anno erano «frutto di investimenti speculativi non sostenibili».
Gli organismi regolatori cinesi, denuncia ancora la rivista, avrebbero dimostrato mancanza di coordinamento e di efficacia nel non aver saputo prevedere l'incombente rischio sistemico.
Non paghi delle iniziative di mercato, negli ultimi giorni, non sapendo più che fare, le autorità cinesi hanno nell’ordine lanciato la caccia ai venditori allo scoperto, ai giornalisti ed agito per risollevare i prezzi delle azioni di grandi conglomerate pubbliche. Ed ecco quindi furiosi rialzi, sino al limite giornaliero del 10%. La cosa più ridicola è che le stesse azioni, quotate ad Hong Kong, risultavano in perdita, e di conseguenza il differenziale di prezzo tra quotazione onshore (domestica) ed offshore (Hong Kong) è stato fino del 45%, perché il mercato, malgrado le recenti aperture, resta frammentato e con limitate possibilità di arbitraggio.
In tutto questo, resta ancora l’incognita sul settore informale dell’economia, il cosiddetto shadow banking sopra citato, che intermedia flussi finanziari senza protezione e monitoraggio di alcun tipo. Può darsi che al momento non sia ancora un problema di consenso politico, e comunque che sia più o meno agevolmente controllabile dal regime, attraverso un mix di controllo sociale ed azione della banca centrale, ma il problema di fondo resta intatto: se le autorità pensavano di far crescere il mercato dei capitali in funzione di allocazione efficiente delle risorse dell’economia, hanno clamorosamente fallito.
Un antefatto, datato il maggio scorso, ha visto la PBOC andare in soccorso del sistema bancario cinese implementando un LTRO in stile europeo con cui scambiava asset particolarmente tossici con prestiti nuovi e fiammanti. Una strategia equivalente a smorzare un incendio gettandovi sopra ulteriore benzina. In sostanza, con la scusa di stimolare l'economia più ampia attraverso la concessione di nuovi prestiti la cui garanzia sono gli LGB (local government bonds), Pechino non ha fatto altro che incentivare le istituzioni pubbliche locali ad affondare ulteriormente nella leva finanziaria e nei debiti rischiosi che hanno scambiato con la PBOC. Una macchina dell'indebitamento a moto perpetuo a quanto pare, con asset diventati rischiosi che vengono scambiati con liquidità ex novo che può essere utilizzata per finanziare progetti che creeranno quegli stessi asset che sono stati scambiati in prima istanza. Quindi, con la scusa di consentire ai governi locali di allentare la pressione a causa dei loro azzardi passati, la PBOC non ha fatto altro che incrementarli.
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Ancora una volta la caduta è stata frenata dall’intervento massiccio e tardivo dello Stato, che si è messo a fare incetta di titoli e a promettere ulteriori finanziamenti a sostegno di banche, imprese e amministrazioni locali, esauste non meno dei listini.
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La Borsa di Shanghai, rispetto ad un anno fa, comunque continua a guadagnare più del 60% malgrado che dal 3 luglio abbia bruciato oltre un quinto del valore e per la Cina il problema adesso è scendere da un toro imbizzarrito senza rompere le ossa a se stessa e agli investitori stranieri.

Casi estremi, come quello di aziende con i conti in rosso che hanno visto crescere il proprio titolo dell’800% in un anno, fino a valere 16 volte più del patrimonio netto, accreditano la speranza di una bolla finanziaria fisiologica e circoscritta, che scuote mercati interni sotto tutela e sotto inchiesta, ma ancora in positivo.


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