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SPENDING REVIEW: TANTO PARLARE PER NULLA?
La “spending review”, in italiano “revisione della spesa”, consiste nell’analisi dei capitoli di spesa dei singoli ministeri, nell’ambito dei programmi delle attività da attuare, al fine di individuare le voci passibili di taglio, per evitare inefficienze e sprechi di denaro.
In effetti da una trentina d’anni i governi italiani tentano di ridurre la spesa pubblica, ma i risultati parlano da soli: nel 1990 le uscite complessive dello Stato, contando anche gli interessi sul debito, ammontavano (in euro e al cambio attuale) a circa 340 miliardi, nel 2000 raggiunsero i 549 miliardi e nel 2014 lievitarono a 825 miliardi. Stando ai dati della ragioneria generale dello Stato, la colpa principale sarebbe da imputare alle pensioni e altre prestazioni sociali ma soprattutto alla voce “amministrazione generale”, vale a dire il costo sostenuto per beni e servizi acquistati dalla pubblica amministrazione.
In Italia, la spending review venne introdotta dall’ex ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, durante il secondo governo Prodi, che sul suo sito spiegava che l’esempio venne importato dopo una visita al collega Gordon Brown del luglio 2006, quando fu avviata una collaborazione per acquisire all’Italia il metodo della spending review sperimentato con successo in Gran Bretagna. La Legge Finanziaria per il 2007 istituì quindi la Commissione tecnica per la Finanza Pubblica.
Il passaggio a un bilancio classificato per missioni e programmi avrebbe dovuto porre, nell’idea del Ministro italiano, le premesse sia per una diversa discussione politica degli obiettivi e delle priorità da realizzare attraverso la spesa sia per una gestione responsabile delle risorse da parte delle amministrazioni. Nel 2007 venne messo a punto il primo e più leggibile bilancio strutturato per missioni, nel quale furono individuati circa 700 milioni di euro di risparmi di spesa.
La “spending review” nacque dunque come metodo per controllare la spesa pubblica in termini qualitativi e non quantitativi, sostituendo alla mentalità dei tagli lineari, quella della riqualificazione della spesa. L'analisi sistematica dei capitoli di spesa, fu trasformata successivamente in programma permanente ad opera della legge finanziaria per il 2008. Accantonata durante l’ultimo governo Berlusconi, ministro dell’Economia Giulio Tremonti, è stata riportata al centro dell’attenzione dell’esecutivo da Mario Monti. Il presidente del consiglio affidò al ministro per i Rapporti col Parlamento, Piero Giarda, la delega alla “spending review”. Il processo di revisione dei capitoli di spesa si sarebbe dovuto concludere ad aprile 2012, ma non si concluse allora, né nelle fasi successive di implementazione.
Altri Paesi che adottano questo sistema, stando a un dossier pubblicato dal servizio studi del Senato sono l’Australia, la Finlandia, l’Olanda, il Giappone, l’Inghilterra e il Canada. Quest’ultimo fu il primo ad adottare il metodo della “spending review”, nei primi anni ’90, creando una sorta di best practice successivamente imitata da molti altri Stati.
La realizzazione di piani integrati per la spending review, venne delegata negli anni a diversi personaggi di grande esperienza e competenza, che produssero diversi studi e proposte, purtroppo sistematicamente disattese dalla politica.
Durante il Governo Monti, Enrico Bondi venne nominato Commissario alla Spending Review, ma i risultati della sua azione furono pressoché annullati non solo dalla solita resistenza delle Pubbliche Amministrazioni alla revisione dei programmi di spesa, ma anche dalla coesistenza con un simile compito, del ministro per i Rapporti con il Parlamento e l'Attuazione del programma di Governo Piero Giarda, la cui attività si sovrappose con quella di Bondi, finendo per annullarne una parte cospicua.
A Bondi fece seguito Mario Canzio nella prima parte del 2013, per poi essere sostituito da Carlo Cottarelli, le cui dimissioni datano poche settimane fa.
La spesa pubblica in Italia nel 2015 ammonterà complessivamente a più di 827 miliardi di euro, come previsto dalla Legge di Stabilità, che la fissa in ulteriore crescita nel 2016 e nel 2017 (842 e 854 mld.€). Pur avendo previsto un notevole aumento della pressione fiscale nei tre anni soggetti a regolamento, ( 795 mld.€ quest’anno, 822 nel 2016 e 844 nel 2017), sarà necessario un taglio alle spese che impedisca al rapporto deficit/PIL di superare gli obiettivi stabiliti.
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Così, i tagli da spending review sono il fattore principale previsto dal DEF 2015, il documento di programmazione economica e finanziaria, per evitare l’aumento IVA dal 2016: si tratta di circa 10 miliardi di risparmi, che insieme ai risparmi sugli interessi dei titoli di stato (grazie al basso spread) e ai maggiori incassi del fisco dovranno contribuire a eliminare le clausole di salvaguardia IVA, con aumento del prelievo fiscale da 16,8 miliardi della Legge di Stabilità. In parole semplici, la manovra per il 2015 prevedeva, nel caso di mancato raggiungimento di un determinato risultato di bilancio, una clausola automatica di aumento dell’IVA a partire dal 2016, con incrementi progressivi fino al 2017, che avrebbero portato l’aliquota attualmente al 10% al 13% e l’aliquota massima al 25,5%. Il DEF 2015 invece elimina questa clausola di salvaguardia, e stabilisce che le risorse necessarie a coprire eventuali esigenze di bilancio arriveranno in buona parte dei tagli da spending review.
Oltre agli scopi più urgenti da raggiungere quest’anno, la revisione della spesa vorrebbe eliminare o razionalizzare la stessa a regime, per ottenere una riduzione più veloce del deficit e raggiungere gli obiettivi europei nei tempi stabiliti.
Nell’attesa che i nuovi Commissari propongano le loro ricette, possiamo analizzare le proposte del rapporto Cottarelli, al fine di focalizzare le aree di spreco o di spese superflue da aggredire, così come individuate.
Sono 19 i dossier elaborati dai vari Gruppi di lavoro organizzati dal Commissario, la cui relazione conclusiva è consultabile sul sito
http://revisionedellaspesa.gov.it/docum ... inalex.pdf ed illustrano come si potrebbero recuperare 33,9 mld. nel triennio 2014/2016.
Per riassumere i punti principali, questi riguardano i seguenti argomenti:
1. EFFICIENTAMENTO DIRETTO ( 12,1 MLD.)
2. RIORGANIZZAZIONI ( 5,9 MLD.)
3. COSTI DELLA POLITICA ( 0,9 MLD.)
4. RIDUZIONE TRASFERIMENTI INEFFICIENTI ( 7,1 MLD.)
5. SPESE SETTORIALI (DIFESA, SANITA’, PENSIONI) ( 7,9 MLD.)
Ognuno di questi punti riguarda una serie di spese in essi accorpate, che possono essere ricomprese sia in risparmi di sprechi, sia in mancate duplicazioni, riduzioni di inefficienze e riduzioni di trasferimenti.
I punti più importanti riguardano l’applicazione dei c.d. “costi standard” alla Sanità (applicazione dei costi delle Regioni “benchmark” nelle spese) che potrebbero rendere 2,0 mld. di risparmio,
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la riduzione delle “stazioni appaltanti” dalle 32.000 attuali a 35, che potrebbero far risparmiare sugli acquisti grazie ai risparmi di scala (7,2 mld. di risparmi),
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le sinergie tra Corpi di Polizia ( 1,7 mld.),
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i trasferimenti alle Imprese ( 2,2 mld. generiche + 1,5 alle Ferrovie),
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tagli delle Partecipate Locali ( 2 mld.)
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tagli alla Difesa ( 2,5 mld.)
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ed interventi sulle Pensioni ( 2,5 mld.).
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Gran parte degli interventi individuati hanno un substrato politico nella loro implementazione. Tutto questo potrebbe portare a vanificare gli studi e le aspettative della popolazione e dell’Unione Europea, riguardo la rimessione in carreggiata della macchia statale italiana.
L’utilizzo delle sopracitate “clausole di salvaguardia”, da qualche tempo introdotte nei Bilanci previsionali dello Stato, dovrà indurre tuttavia i nostri Governanti ad agire in tempi non più dilatati, anche perché l’aumento di imposizione che tali clausole comporterebbero, sarebbe più che deleterio per una Nazione che sta cercando di uscire dalla crisi con tassi di crescita inferiori alle medie dei Paesi omologhi e difficoltà sociali molto accentuate.