In Corte di Assise di Alessandria volavano mazzi di rose di Gerico fra Ausimont-Edison e Solvay, più che un ring sembrava una stalla.
Chi paga? In anni di reclusione: pagano gli otto imputati. E in termine di quattrini? All’atto della vendita nel 2001, il contratto previde che i costi ambientali, i costi di bonifica passati presenti e futuri sarebbero stati tutti totalmente a carico dell’acquirente Solvay. In compenso, la venditrice Ausimont avrebbe applicato uno sconto sul prezzo di mercato. Era durata a lungo la contrattazione, come avevamo descritto a suo tempo. Ausimont-Edison enfatizzava che lo stabilimento di Spinetta Marengo era una gallina dalle uova d’oro, faceva profitti stratosferici, leader mondiale in comparti fluoroderivati, con una ristrutturazione occupazionale praticamente già conclusa con i soldi dello Stato. Da Bruxelles Solvay tirava sul prezzo ribadendo di aver accuratamente fatto analizzare gli enormi problemi ambientali della Fraschetta, di essere cioè perfettamente a conoscenza degli “scheletri negli armadi”; insomma che lo stabilimento era una mela bella di fuori ma marcia dentro. E che la compiacenza ovvero omertà ovvero complicità degli amministratori locali non poteva durare in eterno: prima o poi si sarebbero dovuti spendere miliardi per le bonifiche. Tale era la gravità della situazione ecosanitaria che alla fine Solvay spuntò la cessione per un tozzo di pane e continuò a nascondere scheletri negli armadi. Fin che la barca va, tant que le bateau va, disse Bernard de Laguiche.
Incagliata la barca, per cominciare ci sono già i risarcimenti chiesti in questo processo in Corte di Assise di Alessandria. L’avvocato Giulio Ponzanelli, da buon civilista ha fatto i conti: 104 sono le parti civili e, solo come provvisionali, sono 104 milioni di euro di risarcimenti, in gran parte al Ministero dell’Ambiente, che Solvay alla condanna dovrebbe sborsare in base all’accordo di compravendita (ma è ricorsa a Ginevra ad un arbitrato internazionale con Ausimont: fatti loro). Così Ponzanelli mette le mani in avanti e si arrampica sugli specchi: niente risarcimenti di Solvay a nessuno perché non esisterebbe reato di avvelenamento doloso, la falda acquifera non servirebbe per alimentazione ma per balneazione, non ci sarebbe nemmeno reato di dolosa omessa bonifica perché l’azienda il progetto neppure l’aveva approntato. Tutte cose, francobollini li chiama lui, che ha ascoltato dai colleghi penalisti. Ad ogni modo, precisa Ponzanelli, i risarcimenti andate a chiederli a quell’imbroglione doloso di Ausimont-Edison-Montedison e al suo stratega ambientale Cogliati.
Il presidente Carlo Cogliati, presentato come un semplice dipendente di Montedison retribuito da Ausimont, era stato difeso poco prima da Tullio Padovani. Padovani ha fatto volare mazzate di “rose di Gerico” in omaggio dell’avvocato Luca Santamaria (Solvay) che l’aveva punzecchiato come maldestro difensore di Ausimont. Una rosa di Gerico tira l’altra e Santamaria viene irriso per i suoi versetti (satanici?), ridicolizzato, definito a intervalli ravvicinati: uomo di paglia, che ha raccontato storielle, novelle a veglia, una brutta fiaba, la favola di Cappuccetto Rosso (Solvay) e del lupo cattivo (Ausimont), una commedia degli errori, una farsa, con effetti grotteschi, un rosario di errori e omissioni, un castello costruito sul nulla, su scorie ed erbacce ecc. Insomma noi, che avevamo definito la narrazione di Santamaria del complotto internazionale contro Solvay come un giallo mal riuscito, eravamo stati teneri a confronto di Padovani. Pur di polemizzare (o far finta di) con Santamaria, Padovani ha perfino fatto un’ora di apologia del valore scientifico della sperimentazione tossicologica sugli animali, rischiando grosso sull’eventuale presenza in aula di qualche animalista. Anzi, ha addirittura difeso il PM Riccardo Ghio dagli insulti (ignobili) ricevuti. E per commuovere (o confondere?) i giurati ha spesso interscambiato i nomi Biancaneve e Cappuccetto Rosso (o forse Biancaneve era Cogliati e i sette nani gli altri imputati?). E per farli ridere ha raccontato che lui la sveglia non la porta più al collo ma la tiene in tasca, e che lui l’elenco telefonico lo legge tutto invece di consultare un singolo numero. E ha tentato per ben due volte l’imitazione di Crozza a Giorgio Napolitano.
Se sono rose fioriranno il 13 aprile. Le “rose di Gerico” lanciate ad Alessandria però non erano Anastatica hierochuntica, bensì nella versione del bravo soldato Svejk: “Prenda della merda secca di vacca, la metta in un piatto, ci versi sopra dell’acqua e a quel punto comincerà a farsi tutta bella verde, e quella lì è la rosa di Gerico”.
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